DALLA
RIABILITAZIONE ACCELERATA ALLA RIABILITAZIONE ACCOMODANTE
Domenico Creta e Giulio Sergio Roi
Centro di Riabilitazione Sportiva Isokinetic e Education
& Research Department Isokinetic, Bologna.
Lo scopo di qualunque
trattamento riabilitativo, non solo sportivo, è restituire
al paziente la piena funzionalità del distretto colpito
da un evento traumatico acuto, cronico o post chirurgico.
È noto che un adeguato trattamento di recupero deve
mirare, da un punto di vista biologico, a minimizzare la
flogosi, controllare il dolore, permettere un rapido e progressivo
recupero dell’articolarità, tonificare la muscolatura
e recuperare la coordinazione e la capacità di prestazione.
Il recupero funzionale si basa quindi sul raggiungimento
di determinati obiettivi, che comporteranno determinati
tempi.
In ogni processo di recupero possiamo identificare alcune
variabili in gioco, che sono: 1) la “distanza”
(s) tra lo stato attuale e gli obiettivi del recupero funzionale,
e 2) il tempo (t) necessario per raggiungere tali obiettivi.
Da queste variabili possiamo derivare: 3) la velocità
del recupero, come rapporto tra le due variabili precedenti
(s/t) e 4) l’accelerazione (o decelerazione) come
variazione nella velocità di recupero rispetto ad
una velocità attesa.
Tempo medio necessario
per il ritorno allo sport
Tra i giocatori che partecipavano al campionato di calcio
di Serie A nella stagione 2001-02, la prevalenza dei casi
di ricostruzione del legamento crociato anteriore (LCA)
era dell’8%, con un tempo medio di ritorno all’agonismo
pari a 232 (±135) giorni dall’intervento (range
77-791) (Roi GS et al, comunicazione all’ 8° Int.
Conf. Assisi, 2004).
Questa “velocità” di recupero funzionale
è da considerarsi elevata o bassa? La risposta alla
domanda è praticamente impossibile, poiché
non bisogna dimenticare che la velocità è
una grandezza relativa. Inoltre, se scomponiamo il campione
sopra citato sulla base del tipo di lesione dell’LCA
(isolata, associata e complicata), possiamo notare delle
differenze significative, attorno alla media dell’intero
campione esaminato (tabella 1).
In particolare il gruppo di giocatori con lesione isolata
dell’LCA è tornato all’agonismo entro
i 4-6 mesi dalla ricostruzione (indipendentemente dal tipo
di intervento effettuato), cioè entro un tempo definito
da Donald Shelbourne, come indicativo del ritorno allo sport
in modo accelerato (Shelbourne KD, Nitz P Am J Sports Med
1990, 18:292-299).
Riabilitazione accelerata
Dalla pubblicazione del famoso articolo di Shelbourne nel
1990, il tema della riabilitazione accelerata è divenuto
di grande attualità in ambito medico-sportivo e fonte
di continui dibattiti. Esistono infatti importanti problematiche
biologiche dipendenti dai tempi di guarigione dei tessuti
o dagli stimoli che possono favorire o rallentare la guarigione
stessa, nonché dagli effetti che possono comparire
a distanza di tempo più o meno lunga, sui diversi
organi dell’apparato locomotore. La diversa interpretazione
di tali problematiche ha portato ad una più o meno
aperta contrapposizione tra i gruppi che tendono ad accelerare
rispetto a quelli che tendono a rallentare il processo riabilitativo,
tanto che alcuni considerano il concetto di accelerazione
necessariamente collegato al concetto di rischio.
Ma è sempre così? Beynnon, in un suo recente
articolo (Am J Sport Med, 2005; 33:347-359) risponde negativamente
a questa domanda, poiché non ha rilevato differenze
significative in termini di condizioni cliniche e livello
funzionale raggiunto tra pazienti trattati con protocollo
accelerato o non accelerato in seguito a ricostruzione dell’LCA.
Nella moderna riabilitazione non bisogna più avere
tempi predefiniti da rispettare, ma raggiungere obiettivi.
Il tempo necessario per tornare allo sport diventa di conseguenza
un obiettivo secondario, mentre il primo obiettivo è
quello di soddisfare tutti i requisiti necessari per tornare
all’agonismo, e questo richiederà necessariamente
un certo tempo riabilitativo (Kvist J, Sport Med 2004;34(4):269-280).


Basi biologiche della riabilitazione
In ogni processo riabilitativo dopo una lesione traumatica
dell’apparato locomotore, vengono somministrate delle
sollecitazioni via via crescenti, nell’intento di
recuperare una funzione perduta. Si pone quindi la questione
relativa ai criteri da utilizzare per la progressione dei
carichi, che è già stata risolta dall’acronimo
SAID (Specific Adaptations to Imposed Demand), ad indicare
che i carichi devono essere continuamente adattati alle
reazioni del sistema sul quale sono applicati e che il sistema
si adatta continuamente ai carichi che gli vengono proposti.
In questo processo che possiamo definire di azione-reazione,
gli stimoli utili alla guarigione sono tutti quelli che
inducono una risposta di adattamento attraverso modificazioni
ormonali e neuro fisiologiche.
L’esercizio riabilitativo è un tipico stimolo
che induce modificazioni ormonali e neuro fisiologiche che,
in sintesi, dipendono dalla specificità dell’esercizio
(isotonico, eccentrico, concentrico, isometrico, ecc…)
e dal dosaggio dei carichi (intensità, volume e densità).
Inoltre nel dosare l’esercizio, andranno considerate
anche la qualità dei tessuti lesi e le loro intrinseche
potenzialità di guarigione, che condizionano l’entità
delle risposte all’applicazione dei carichi.
L’applicazione di un carico provocherà quindi
una reazione specifica, cosicché il principio di
azione e reazione in riabilitazione può essere ulteriormente
elaborato, per cui se non si rispettano i criteri che permettono
di definire la guarigione, si possono avere complicazioni
che possono manifestarsi immediatamente (es. idrartro) ovvero
a distanza (es. artrosi).
Un interessante articolo pubblicato nel 1998 (Dye SF, Fu
FH, J Bone Joint Surg, 80-A:1380-1393, 1998) ha posto l’attenzione
sul fatto che ogni sistema deve mantenere una sua omeostasi.
Esistono infatti tre aree che comportano tre tipologie di
risposte dei tessuti alle sollecitazioni ed al carico, sia
in condizioni fisiologiche che in condizioni patologiche
(figura 1):
1. area di omeostasi: è l’area centrale, dove
il sistema è sempre in grado di mantenere l’omeostasi
sia da un punto di vista metabolico che riparativo;
2. area di sottocarico: al di sotto del limite inferiore
dell’area di omeostasi gli effetti dell’insufficiente
sollecitazione provocano osteopenia, atrofia muscolare e
diminuzione della sintesi dei proteoglicani;
3. area di sovraccarico: al di sopra dell’area di
omeostasi le sollecitazioni sono “sovrafisiologiche”
e non possono essere tollerate dal sistema, anche se applicate
per un tempo limitato.
È evidente che ogni individuo (sano o malato che
sia) ha per ogni sistema le sue peculiari aree di omeostasi,
ed avrà quindi delle capacità di risposta
alle diverse sollecitazioni che sono del tutto personali.
Ne deriva che applicare criteri temporali predefiniti non
permette di tener conto della complessità dei sistemi
biologici individuali che sono coinvolti nell’allenamento
e nella riabilitazione.
La riabilitazione accomodante
Il concetto di “accomodante” deriva dalla metodica
isocinetica, dove la resistenza offerta dall’apparecchio
isocinetico è sempre proporzionale alla forza espressa
dal sistema muscolare. In questo modo le sollecitazioni
sono sempre massimali e contemporaneamente si adattano alle
effettive capacità del sistema (Hislop H, Perrine
JJ, Phys Ther 1967; 47:114-17).
La riabilitazione accomodante va oltre il concetto di riabilitazione
accelerata, poiché il paziente svolge ciò
che è effettivamente in grado di tollerare, adattando
continuamente i carichi alla situazione che evolve, a partire
dall’applicazione del concetto della progressione
dei carichi, che non deve essere interpretato solo dal punto
di vista della Teoria dell’Allenamento, ma anche da
un punto di vista clinico. Per questo è necessario
applicare un costante monitoraggio (clinico e funzionale)
che permetta di controllare il delicato equilibrio tra la
necessità di guarigione del tessuto e la necessità
di stimoli per i tessuti, gli organi ed i sistemi dell’apparato
locomotore.
Assumono quindi notevole rilevanza il sintomo dolore ed
i segni di effusione o di idrartro, indicativi di un eventuale
squilibrio tra la necessità di guarigione del tessuto
e le richieste funzionali dettate dalla progressione dei
carichi.
Nella riabilitazione accomodante è necessario:

1. definire gli obiettivi clinici e funzionali prioritari
di ogni singola fase (ad esempio: il recupero dell’estensione
completa; il recupero dello schema del passo con carico
parziale e controllato in acqua; il recupero della corsa
sul campo sportivo; ecc…);
2. osservare le reazioni agli stimoli che vengono somministrati
per raggiungere gli obiettivi;
3. identificare i “semafori rossi” che impediscono
di passare alla fase successiva (dolore, idrartro, deficit
ROM) (figura 2);
4. definire le strategie da adottare quando compaiono complicanze
(ad esempio: in caso di idrartro utilizzare Fans, ghiaccio,
riposo attivo, idrokinesiterapia, massaggio linfatico, riduzione
del numero di sedute riabilitative settimanali, ecc...;
oppure in caso di dolore utilizzare Fans, terapie fisiche,
rinforzo muscolare nel ROM libero da dolore, selezione di
opportuni esercizi in catena aperta e chiusa, diminuzione
dei carichi, rinforzo eccentrico, ecc…).
Così facendo, il concetto secondo il quale esistono
dei tempi predefiniti che guidano la riabilitazione viene
superato e l’attenzione viene posta sui criteri clinici
e funzionali che costituiscono l’effettivo presupposto
per la progressione dei carichi e delle sollecitazioni che
portano alla guarigione (Kvist J, Sport Med 2004; 34:269-280).
Questo tipo di approccio permette di pianificare il recupero
da un trauma non seguendo più un rigido protocollo
di recupero standardizzato (anche accelerato), ma che non
tiene conto delle reali condizioni del paziente. Il protocollo
deve invece essere calato nella singola realtà di
ogni paziente e proprio perchè verrà modulato
in risposta alle sue specifiche condizioni cliniche in continua
evoluzione, diventa accomodante, cioè coerente e
corrispondente alla situazione in corso, senza dimenticare
l’unicità di ogni singolo paziente, non solo
come persona e storia clinica, ma anche come reattività
individuale dei tessuti al trauma e capacità di guarigione.
Il futuro della riabilitazione
Ogni processo riabilitativo deve preoccuparsi del recupero
funzionale, ma soprattutto di garantire la funzionalità
nel tempo e prevenire l’instaurarsi di patologie degenerative,
senza trascurare la complessità delle reazioni e
soprattutto le potenzialità nei sistemi biologici.
Assumono quindi importanza le tecniche chirurgiche sempre
più affidabili ed anatomiche (“Bio-orthopaedic-surgeon”),
ma anche le moderne tecniche riabilitative che si sviluppano
da basi “neuro-meccaniche” e che presuppongono
un equilibrio tra i carichi riabilitativi ed il controllo
neuromotorio.
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